Pubblico un post di materiale non originale per omaggiare la figura di uno dei principali storici del '900 che contemporaneamente è stato anche uno dei più lucidi marxisti del secolo.
Parlo di Eric Hobsbawm.
Mancato nel 2012 all'età di 95 anni, scrisse e pubblicò saggi interessantissimi fino ai propri ultimi giorni mantenendo il senso della propria riflessione tremendamente attuale parlando di globalizzazione, di attacco alla sovranità dello stato, di erosione della statualità come fenomeno parallelo all'erosione della democrazia ed effetto della lotta di classe vinta dall'alto, sempre animato da grande rigore analitico ma anche capace di non cadere mai in forme di solipsistico dogmatismo.
Capace a 90 anni ed oltre di ripensarsi continuamente ed essere all'altezza dei tempi, pienamente padrone di un metodo e non semplicemente preoccupato di gestire, amministrare e ripetere vecchie formule finendone ingabbiato.
Ai miei occhi un esempio, in tutti i sensi.
I suoi due libri più famosi, di carattere divulgativo, sono Il secolo breve e L'età degli imperi.
Credo che entrambi vadano riletti proprio per comprendere meglio le contraddizioni odierne.
In successione, l'uno e l'altro, ci parlano della belle époque e del laissez faire, della crisi economica di quell'epoca che ingiustamente oggi si ricorda come un tempo prospero e di crescita ( per chi e a quali condizioni? )
Ci parlano del crollo storico e della completa delegittimazione del liberismo, cioè questa post-modernità oggi imperante che è in realtà stata a tutti gli effetti un balzo indietro di un secolo; ci parlano delle contraddizioni e dei tragici eventi che i conflitti intercapitalistici generarono e che noi oggi abbiamo il dovere di disinnescare in una situazione che per numerosi aspetti si ripropone simile.
Ritornerò su questo argomento citando singoli passaggi emblematici che mostrano come il liberismo abbia generato problemi in buona parte sovrapponibili in epoche diverse e come questi fenomeni, che possiamo definire genericamente come "effetti della globalizzazione", siano in realtà quasi ciclici nella storia.
Ciclici e reversibili, al contrario di quanto sostiene la vulgata corrente da destra a sinistra.
Il problema è che normalmente i cicli di globalizzazione si sono interrotti a causa di autentici cataclismi sociali e politici ( ed anche culturali ): la caduta dell'impero romano che era a propria volta un episodio di globalizzazione, la fine dell'imperialismo a trazione britannica la cui egemonia era contesa dalla dinastia guglielmina con la prima guerra mondiale, etc. etc. etc.
Come potremmo noi, oggi, opporci concretamente alla globalizzazione capitalistica evitando che l'umanità intera vada incontro ad un ennesimo cataclisma, come potremmo governare il fenomeno in modo pacifico restituendo democrazia e possibilità di costruire un futuro migliore e più libero per tutti i più poveri , per tutti i nati non privilegiati, senza che questa fase della globalizzazione si chiuda con una guerra o una chiusura nazionalistica governata da regimi autoritari ( una qualche riattualizzazione difficile da prevedere del fascismo storico, non uguale a sé stesso ma di certo nuovamente autoritario ), o con la seconda cosa di seguito alla prima come già accaduto un secolo fa?
A questa domanda risponde il penultimo libro di Hobsbawm, di cui cito in seguito un passaggio di bruciante attualità che da solo offre spunti sufficienti a scrivere interi trattati.
Se veramente volessimo ricostruire una sinistra all'altezza dei tempi credo dovremmo rileggere, tra le prime cose da farsi, questo autore del quale veramente si può dire che ha lasciato un vuoto incolmabile.
<Fu soltanto con la nuova era, dopo il 1973, quando l'economia e
la politica di riforma del dopoguerra avevano cessato di dare simili
risultati positivi che i governi vennero persuasi dalle ideologie
individualistiche che ormai infestavano la facoltà di economia di
Chicago. Per loro, i movimenti e i partiti operai, e persino i sistemi
pubblici di welfare, altro non erano che ostacoli al libero mercato, che
garantiva la massima crescita dei profitti e dell'economia, e di
conseguenza, ritenevano gli ideologi, anche del welfare in generale.
Idealmente, si sarebbe dovuto abolirli, anche se ciò si dimostrò in
pratica impossibile; la «piena occupazione» era ora sostituita dalla
flessibilità del mercato del lavoro e dalla dottrina del «tasso naturale
di disoccupazione».Questo fu anche il periodo in cui gli
Stati-nazione si ritirarono di fronte all'avanzata dell'economia globale
transnazionale. Nonostante il loro internazionalismo teorico, i
movimenti operai erano efficaci solo all'interno dei confini del proprio
Paese, incatenati ai loro Stati-nazione, in particolare nelle economie
miste e nei welfare states a conduzione pubblica della seconda metà del
XX secolo. Con il ritirarsi degli Stati-nazione, i movimenti operai e i
partiti socialdemocratici hanno perduto la loro arma più forte; finora
non hanno mostrato una grande capacità di operare in modo
transnazionale. Con l'entrata del capitalismo in un nuovo periodo di
crisi, ci troviamo così alla fine di una fase peculiare della storia dei
movimenti operai. Nelle «economie emergenti» in via di rapida
industrializzazione, una possibilità di declino del lavoro industriale
non c'è; nei Paesi ricchi del vecchio capitalismo i movimenti operai
esistono ancora, sebbene traggano massicciamente la propria forza dai
servizi pubblici che, nonostante le campagne neoliberali, non danno
segni di contrazione. I movimenti occidentali sono sopravvissuti perché,
come Marx aveva previsto, la grande maggioranza della popolazione
economicamente attiva dipende dai propri stipendi e salari, e dunque
riconosce la distinzione tra gli interessi di chi distribuisce il
salario e di chi lo percepisce. Per cui, allorché sorgono conflitti fra
le due parti, questi richiedono un'azione collettiva; la lotta di classe
quindi continua, con o senza il sostegno delle ideologie politiche.
Inoltre, il divario tra i ricchi e i poveri e le divisioni tra gruppi
sociali con interessi divergenti continuano a esistere, che ci piaccia o
meno chiamare questi gruppi «classi». Per quanto le gerarchie sociali
possano essere differenti da quelle di cento o duecento anni fa, la
politica va dunque avanti, sebbene solo in parte come politica di
classe.
Infine, i movimenti operai continuano perché lo
Stato-nazione non è in via di estinzione. Lo Stato e le altre autorità
pubbliche restano le uniche istituzioni capaci di distribuire il
prodotto sociale tra gli individui che ne fanno parte, in termini umani,
e di venire incontro a quei bisogni umani che il mercato non può
soddisfare. La politica è quindi rimasta, e rimane, una dimensione
necessaria della lotta per il miglioramento sociale. Anzi, la grande
crisi economica che è cominciata nel 2008 e che rappresenta una sorta di
caduta del muro di Berlino per la destra, ha portato all'immediata
comprensione del fatto che lo Stato era essenziale per un'economia in
difficoltà, così come lo era stato per il trionfo del neoliberismo,
quando i governi ne avevano gettato le fondamenta mediante una
sistematica privatizzazione e deregulation. >
Erich Hobsbawm, Come cambiare il mondo, perchè riscoprire l'eredità del marxismo. 2011, Rizzoli editore.
Sorprendente quanto possa essere lucido e fresco un 94enne.
Uno come tanti, che però si ostina a voler sbagliare in proprio e non per conto terzi. Uno convinto che un pizzico di buon senso e una spolveratina di coscienza di classe sarebbero atti rivoluzionari ma in una società impazzita, il più delle volte, diventano solo l'incipit dell'ulcera. Uno che crede che il sarcasmo sia un'arma di difesa del piffero, ma pur sempre un'arma di difesa.
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martedì 29 dicembre 2015
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