martedì 29 dicembre 2015

Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l'eredità del marxismo

Pubblico un post di materiale non originale per omaggiare la figura di uno dei principali storici del '900 che contemporaneamente è stato anche uno dei più lucidi marxisti del secolo.
Parlo di Eric Hobsbawm.
Mancato nel 2012 all'età di 95 anni, scrisse e pubblicò saggi interessantissimi fino ai propri ultimi giorni mantenendo il senso della propria riflessione tremendamente attuale parlando di globalizzazione, di attacco alla sovranità dello stato, di erosione della statualità come fenomeno parallelo all'erosione della democrazia ed effetto della lotta di classe vinta dall'alto, sempre animato da grande rigore analitico ma anche capace di non cadere mai in forme di solipsistico dogmatismo.
Capace a 90 anni ed oltre di ripensarsi continuamente ed essere all'altezza dei tempi, pienamente padrone di un metodo e non semplicemente preoccupato di gestire, amministrare e ripetere vecchie formule finendone ingabbiato.
Ai miei occhi un esempio, in tutti i sensi.

I suoi due libri più famosi, di carattere divulgativo, sono Il secolo breve e L'età degli imperi.
Credo che entrambi vadano riletti proprio per comprendere meglio le contraddizioni odierne.
In successione, l'uno e l'altro, ci parlano della belle époque e del laissez faire, della crisi economica di quell'epoca che ingiustamente oggi si ricorda come un tempo prospero e di crescita ( per chi e a quali condizioni? )
Ci parlano del crollo storico e della completa delegittimazione del liberismo, cioè questa post-modernità oggi imperante che è in realtà stata a tutti gli effetti un balzo indietro di un secolo; ci parlano delle contraddizioni e dei tragici eventi che i conflitti intercapitalistici generarono e che noi oggi abbiamo il dovere di disinnescare in una situazione che per numerosi aspetti si ripropone simile.
Ritornerò su questo argomento citando singoli passaggi emblematici che mostrano come il liberismo abbia generato problemi in buona parte sovrapponibili in epoche diverse e come questi fenomeni, che possiamo definire genericamente come "effetti della globalizzazione", siano in realtà quasi ciclici nella storia.
Ciclici e reversibili, al contrario di quanto sostiene la vulgata corrente da destra a sinistra.
Il problema è che normalmente i cicli di globalizzazione si sono interrotti a causa di autentici cataclismi sociali e politici ( ed anche culturali ): la caduta dell'impero romano che era a propria volta un episodio di globalizzazione, la fine dell'imperialismo a trazione britannica la cui egemonia era contesa dalla dinastia guglielmina con la prima guerra mondiale, etc. etc. etc.
Come potremmo noi, oggi, opporci concretamente alla globalizzazione capitalistica evitando che l'umanità intera vada incontro ad un ennesimo cataclisma, come potremmo governare il fenomeno in modo pacifico restituendo democrazia e possibilità di costruire un futuro migliore e più libero per tutti i più poveri , per tutti i nati non privilegiati, senza che questa fase della globalizzazione si chiuda con una guerra o una chiusura nazionalistica governata da regimi autoritari ( una qualche riattualizzazione difficile da prevedere del fascismo storico, non uguale a sé stesso ma di certo nuovamente autoritario ), o con la seconda cosa di seguito alla prima come già accaduto un secolo fa?

A questa domanda risponde il penultimo libro di Hobsbawm, di cui cito in seguito un passaggio di bruciante attualità che da solo offre spunti sufficienti a scrivere interi trattati.
Se veramente volessimo ricostruire una sinistra all'altezza dei tempi credo dovremmo rileggere, tra le prime cose da farsi, questo autore del quale veramente si può dire che ha lasciato un vuoto incolmabile.





<Fu soltanto con la nuova era, dopo il 1973, quando l'economia e la politica di riforma del dopoguerra avevano cessato di dare simili risultati positivi che i governi vennero persuasi dalle ideologie individualistiche che ormai infestavano la facoltà di economia di Chicago. Per loro, i movimenti e i partiti operai, e persino i sistemi pubblici di welfare, altro non erano che ostacoli al libero mercato, che garantiva la massima crescita dei profitti e dell'economia, e di conseguenza, ritenevano gli ideologi, anche del welfare in generale. Idealmente, si sarebbe dovuto abolirli, anche se ciò si dimostrò in pratica impossibile; la «piena occupazione» era ora sostituita dalla flessibilità del mercato del lavoro e dalla dottrina del «tasso naturale di disoccupazione».Questo fu anche il periodo in cui gli Stati-nazione si ritirarono di fronte all'avanzata dell'economia globale transnazionale. Nonostante il loro internazionalismo teorico, i movimenti operai erano efficaci solo all'interno dei confini del proprio Paese, incatenati ai loro Stati-nazione, in particolare nelle economie miste e nei welfare states a conduzione pubblica della seconda metà del XX secolo. Con il ritirarsi degli Stati-nazione, i movimenti operai e i partiti socialdemocratici hanno perduto la loro arma più forte; finora non hanno mostrato una grande capacità di operare in modo transnazionale. Con l'entrata del capitalismo in un nuovo periodo di crisi, ci troviamo così alla fine di una fase peculiare della storia dei movimenti operai. Nelle «economie emergenti» in via di rapida industrializzazione, una possibilità di declino del lavoro industriale non c'è; nei Paesi ricchi del vecchio capitalismo i movimenti operai esistono ancora, sebbene traggano massicciamente la propria forza dai servizi pubblici che, nonostante le campagne neoliberali, non danno segni di contrazione. I movimenti occidentali sono sopravvissuti perché, come Marx aveva previsto, la grande maggioranza della popolazione economicamente attiva dipende dai propri stipendi e salari, e dunque riconosce la distinzione tra gli interessi di chi distribuisce il salario e di chi lo percepisce. Per cui, allorché sorgono conflitti fra le due parti, questi richiedono un'azione collettiva; la lotta di classe quindi continua, con o senza il sostegno delle ideologie politiche.
Inoltre, il divario tra i ricchi e i poveri e le divisioni tra gruppi sociali con interessi divergenti continuano a esistere, che ci piaccia o meno chiamare questi gruppi «classi». Per quanto le gerarchie sociali possano essere differenti da quelle di cento o duecento anni fa, la politica va dunque avanti, sebbene solo in parte come politica di classe.
Infine, i movimenti operai continuano perché lo Stato-nazione non è in via di estinzione. Lo Stato e le altre autorità pubbliche restano le uniche istituzioni capaci di distribuire il prodotto sociale tra gli individui che ne fanno parte, in termini umani, e di venire incontro a quei bisogni umani che il mercato non può soddisfare. La politica è quindi rimasta, e rimane, una dimensione necessaria della lotta per il miglioramento sociale. Anzi, la grande crisi economica che è cominciata nel 2008 e che rappresenta una sorta di caduta del muro di Berlino per la destra, ha portato all'immediata comprensione del fatto che lo Stato era essenziale per un'economia in difficoltà, così come lo era stato per il trionfo del neoliberismo, quando i governi ne avevano gettato le fondamenta mediante una sistematica privatizzazione e deregulation. >
Erich Hobsbawm, Come cambiare il mondo, perchè riscoprire l'eredità del marxismo. 2011, Rizzoli editore.
Sorprendente quanto possa essere lucido e fresco un 94enne.

4 commenti:

  1. Caro Enea, innanzi tutto benvenuto nella blogosfera. Non so perché ma il tuo post mi ha fatto tornare alla mente un episodio di tantissimi anni fa, più di quaranta. All'epoca (ero uno studente al primo anno di università) incotrai alla stazione di Frosinone un mio carissimo amico ed ex compagno di scuola, niente meno che il fratello del buon Claudio Martino, Stefano, purtroppo prematuramente scomparso. Stefano, di cui spesso mi ricordo, era appena tornato dall'India. Era partito che era un compagno del Movimento Studentesco, e ne era tornato completamente conquistato dalla spiritualità indiana. Quando ci incontrammo, dopo i festeggiamenti reciproci, iniziammo a parlare, e lui mi disse una cosa che mi è rimasta per sempre impressa nella memoria. Disse: "un giorno l'Europa sarà una fortezza, chiusa e sulla difensiva davanti all'assalto delle masse di disperati dal resto del mondo".

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  3. Ho il sospetto che sia uno degli aspetti ciclici della storia sui quali una attenta rilettura di Hobsbawm aiuterebbe a fare luce.
    E farebbe luce ristudiando quanto accaduto un secolo fa.
    Il secolo breve ( l'opera divulgativa sulla storia del '900 forse più famosa al mondo, per una volta con pieno merito ) è diviso in tre parti, molto probabile che tu già conosca l'opera, ma sarò ugualmente un po' didascalico.

    La prima parte, detta "l'età della catastrofe" fa un sunto brevissimo delle contraddizioni che condussero all'esplosione della prima guerra mondiale e ad un contesto di rivoluzione mondiale, anche se poi l'occasione si presentò o meglio venne ben sfruttata, soltanto in Russia.

    C'è un passaggio che ritroverò nei prossimi giorni e ci scriverò un post sopra appena finiti gli altri due in lavorazione, nel quale evidenzia come furono le "migrazioni di massa" uno dei principali motivi di instabilità sistemica che determinarono gli avvenimenti seguenti.
    L'instabilità era data dall'ingestibilità della politica della "fortezza" e dal fatto che la disoccupazione di massa aggravavano le conseguenze sociali del fenomeno.
    E da questo punto di vista cosa ci dice Hobsbawm?
    Grossomodo la stessa cosa che ha detto Brancaccio: le persone si muovono lungo la stessa direzione sulla quale si muovono i soldi ma con verso contrario.
    Da qui si dovrebbero separare due correnti di pensiero: una che potremmo comunemente definire destra, che per non contestare il flusso di denaro (*), pensa di risolverebbero le contraddizioni interne create dai flussi di persone mantenendo le frontiere permeabili ai soldi ma impermeabili alle persone, militarizzandole.
    Una seconda, che potremmo definire di sinistra, che per liberare le persone, invece che militarizzare le frontiere, contesta la loro permeabilità rispetto al denaro contestando questo flusso, e rendendo più facile la gestione di quel che lo segue come conseguenza.

    Facendo riferimento alla topologia parlamentare odierna abbiamo una offerta politica sul primo fronte e niente ( per il momento ) sul secondo.

    Oltre a questo però c'è anche un fattore culturale profondo che andrebbe indagato e che per me è oggetto di studio perchè sono convinto di non averne capito ancoa abbastanza.
    L'idea di Grande Europa Fortezza in contrapposizione al resto del mondo è un'idea che viene da lontano, e permea anche l'odierna UE.
    E' emblematico lo spot che fecero non molto tempo fa ma che poi decisero di non utilizzare ( ma che è uscito lo stesso e circola su youtube ).
    https://www.youtube.com/watch?v=kKN67ImpO4k

    Non vogliamo negoziare assetti pacifici con gli altri, cattivi ed aggressivi per definizione, vogliamo essere abbastanza grossi per imporglieli.
    QUesto esprime in sostanza lo spot che la Commissione UE aveva fatto approntare ma che poi si sono vergognati a far circolare per canali ufficiali perchè era troppo smaccato ( falsa la premessa, sciocca la conclusione: con un unilateralismo impositivo rapporti pacifici e distesi saranno sempre una pia illusione ).

    E' un luogo comune diffuso anche nella sinistra ( quella allo sbando ).
    Un piccolo paese sarebbe in balia del resto del mondo, quindi l'unione europea sarà anche brutta ma ci serve per farci valere, ha le dimensioni per praticare una politica di potenza su un livello più elevato.

    Paradossalmente quello che ritengono essere "internazionalismo" è una forma di nazionalismo sublimata su un piano più elevato.
    L'UE ci serve per poter praticare un nazionalismo che come Italia non ci possiamo permettere.

    Questo elemento culturale latente ( che innervava più l'ideologia del nazismo tedesco che non del fascismo italiano ) ha certamente lasciato qualche strascico profondo trasversale alle parti politiche.

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  4. (*) prima o poi voglio riprendere anche qualche passaggio del IV capitolo de L'Imperialismo, fase suprema del capitalismo, nel quale si spiega brillantemente ed in poche parole come l'imperialismo sia un fenomeno che parte *sempre* da una esportazione di capitale operata a senso unico.
    Ne discende che se questa è la struttura commerciale della UE siamo in presenza di un impero, anche se la forma è atipica e per vari aspetti inedita, dato che si tratta di un impera che parassita la propria stessa periferia.
    Seguirebbe una domanda: se queste analisi sono il DNA della sinistra storica, come fa la sinistra contemporanea a non accorgersene?
    Non ho la risposta, purtroppo.
    Ma ho un blog per domandarmelo.

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