Qualche considerazione sistemica, senza però alcuna pretesa di essere esaustiva perchè non sono uno specialista in nessuno dei temi trattati, si può trarre da qualsiasi tema di attualità.
Forse però, anche con un po' di populismo, si può giungere a porsi delle domande azzeccate.
Sulle risposte lavoreremo in seguito coi consulenti e gli specialisti del caso.
In questi giorni abbiamo un problema ambientale/climatico: dopo circa due mesi senza pioggia e senza vento, con aria stagnante e spesso nebbia nella regioni settentrionali, ci ritroviamo a fare i conti con l'irrespirabilità dell'aria delle nostre città e con dati di inquinamento assolutamente allarmanti.
Non è la prima volta e con ogni probabilità, purtroppo, non sarà l'ultima.
Di fronte ad una emergenza che è palesemente sistemica autorità ed amministrazioni locali non si inventano nulla di meglio del ricorso al pannicello caldo del blocco del traffico e delle targhe alternate.
A questo punto si scatena la canea di quelli che, per pigrizia o perchè non userebbero i mezzi pubblici neanche scannati perchè son cose da poveracci o anche molto più seriamente perchè l'efficienza dei mezzi pubblici fa cagare e li rende inagibili ai tanti che si spostano per lavoro e non per diporto avendo tempo da perdere, fanno notare che con questo pannicello caldo non si risolverà un bel niente.
In effetti non ha molto senso illudersi che qualche giorno di targhe alternate o di blocco integrale del traffico cambieranno sostanzialmente la situazione.
Nello stesso tempo sarebbe però importante domandare a costoro: se non questo, allora cosa?
A quest'ultima domanda la risposta non è semplice e provare a ragionare in una maniera che possa cominciare a costruire un percorso di soluzioni realistiche e concrete, passa necessariamente attraverso il tentativo di provare a ragionare in maniera sistemica.
Se lo facciamo emergono una imponente mole di questioni sulle quali la società dovrebbe ragionare e che dovrebbero essere anche temi importanti di una politica socialista ( quindi anche ambientalista ); temi che un partito serio dovrebbe saper trasformare in discorso politico, in senso comune, formulando proposte intorno alle quali mobilitarsi.
La mia sensazione è che il problema dell'inquinamento delle
città dopo due mesi di aria stagnante senza vento e senza pioggia, a
dispetto delle opinioni manichee di una parte e dall'altra ( bloccotrafficisti e liberotrafficisti, entrambi con approccio oltranzista e visione non sistemica ), ci ponga di
fronte al fatto che questo paese è nel suo insieme rimasto fermo da 20
anni.
In questo caso l'UE è un ostacolo al trovare soluzioni ( no possibilità di spesa = no soluzioni ), ma nel pantano ci siamo finiti per motivi anche in buona parte indipendenti dai problemi centrali della politica contemporanea, gravitanti quasi tutti intorno al buco nero dato dal mostro-UE.
La colpa degli allarmanti dati dell'inquinamento dell'aria delle nostre città non sarà certamente il ( solo ) traffico, ma è
inutile che perdiamo tempo raccontandoci che non sarebbe vero che
abbiamo una mobilità pubblica e privata assolutamente ridicola.
L'Hinterland milanese non ha un sistema di trasporti pubblici integrato; fuori città ognuno ha la sua aziendina di trasporti, spesso i collegamenti non sono diretti, sono disorganizzatissimi e la parcellizzazione estrema delle aziende locali di trasporti fa lievitare i costi per l'utenza senza che per questo i dipendenti del settore dei trasporti siano trattati meglio.
Evidentemente un sistema non integrato comporta aumenti di costi sub-specie di aumento dell'inefficienza.
E le reti sono vetuste, quando non materialmente almeno nella concezione.
Sia che si tratti di trasporto su rotaia sia che si tratti di trasporto stradale, caso nel quale gli investimenti fatti non avevano una logica se non quella delle bustarelle sugli appalti. La carissima BreBeMi è sistematicamente vuota, viaggiamo tra svincoli e rotonde di dimensioni bibliche il cui senso per la viabilità sta nel grembo di Giove e contestualmente strade trafficatissime, strettissime e poco o per nulla manutese.
Nell'insieme, quindi, trasporti pubblici fatti per non funzionare e trasporti privati gestiti in maniera demenziale.
Sulla riqualificazione energetica dell'edilizia, tanto pubblica quando abitativa, il nostro paese ha prodotto un clamoroso buco nell'acqua; su questo tema è peggio che andar di notte.
Le certificazioni energetiche in Italia si fanno a mazzette; c'è ancora
chi riscalda a gasolio ed anche dove lo si fa a gas, magari, le caldaie
neanche sono a condensazione.
Poi dopo due mesi senza pioggia e senza vento, magari pure con nebbia, risulta che l'aria delle città è una melassa di inquinanti. Vien da dirsi, molto populisticamente: grazie al cazzo!
Metodi nuovi circa le soluzioni edili?
Pareti con intercapedini in materiali misti legno/laterizio, abitativo
anche su più piani in legno, nuovi materiali per la coibentazione, ripensamento della nostra urbanistica con investimenti in edilizia pubblica-popolare ma di qualità comprando vecchi stabili per poi sventrarli e ricostruirli ridando un volto nuovo ad interi quartieri pensando in maniera integrata edilizia abitativa, viabilità, una urbanistica anche esteticamente decente?
Macchè, si sono inventanti almeno altre 3 classi oltre l'efficienza
energetica "A" poi vedi ancora costruire case nuove di pacca coi forati
ed una spruzzata di robe tipo poliuretano sopra.
E quella sarebbe efficienza energetica?
A latere bisognerebbe anche fare un discorso sul fatto che investire in edilizia pubblica non è possibile se abbiamo regole che impediscano in generale allo stato di investire e se le cordate di potere dei palazzinari molto ben rappresentate in politica ( da cdx a csx ) non vogliono uno stato presente nel settore gli faccia concorrenza.
Chi ci rimette è, naturalmente, il popolino.
Ma al di la delle cordate di potere e delle regole per la spesa pubblica della UE da cestinare, abbiamo ugualmente il problema dato da una classe politica che non ha la serietà e la competenza per affrontare in maniera seria ed innovativa queste problematiche.
Tutto ciò che resta, per chi ha soldi, è che nella propria villettina privata si possono fare cose interessanti, ma così si restringe la questione a chi ha soldi ed in ogni caso non si cambia granchè nell'efficienza energetica generale.
Da un lato abbiamo scuole con bambini che fanno lezione al freddo,
dall'altro edifici pubblici costruiti 80 anni fa col soffitto alto 4
metri con l'impiegata che tiene la finestra aperta a gennaio perchè
dentro c'è un clima da isole Fiji e non si può nemmeno intervenire perchè non c'è termostato.
C'è poi il problema della maleducazione della gente: in casa in inverno indossi un maglione o una
tuta pesante e vivi a 19° di giorno e a 16° di notte ( tanto stai
sotto le coperte ).
Pretendere di vivere a 24° a dicembre-gennaio
per togliersi lo sfizio di girar per casa in maglietta e mutande non è
una libertà individuale ( "tanto la bolletta me la pago io".... ) ma un
comportamento antisociale che andrebbe stigmatizzato come tale, ed in
seguito anche impedito e sanzionato.
Produzione di energia: in
Italia abbiamo, secondo me giustamente, detto no al nucleare ma fatta
questa scelta nel 1987 e ribadita nel 2011 attraverso due storici referendum, non ci siamo mai dati una
seria politica energetica alternativa che considerasse la reale alternativa sul tavolo, cioè quella tra produzione di energia fortemente centralizzata o fortemente diffusa.
Sarebbe stato saggio investire sulla seconda ma lo si è fatto nel modo peggiore, trasformando la questione della produzione di energia solare in un business immediato attraverso il sistema degli incentivi.
Tutto mandato in malora a breve termine per insostenibilità economica degli incentivi stessi, così ci siamo bruciati prezioso terreno agricolo per coprirlo di pannelli da parte di chi si è mosso velocamente ad acchiappare l'incentivo, mentre non si è reso obbligatorio coprire di pannelli solari i capannoni industriali e gli edifici pubblici, cosa che invece avrebbe avuto senso.
D'altra parte un investimento in SOVRANITA' ENERGETICA, oltre che in rispetto dell'ambiente, va valutato in una prospettiva di almeno un paio di decenni.
Se riduciamo la questione all'intascarsi l'incentivo da qui a 6 mesi, è chiaro che non può funzionare.....
Nel frattempo andiamo avanti ad olio e
rigasificatori, l'idroelettrico non è completamente sfruttato
nelle regioni settentrionali ma ci si riempia la bocca con le fonti rinnovabili e in intere regioni che potrebbero campar di lusso col geotermico ( Campania, Lazio ) si fanno i
comitati cittadini per cercare di impedire la costruzione di impianti di questo
tipo.
Intendiamoci, avere una centrale elettrica vicino a casa di qualsiasi
tipo sia non è piacevole, ma se nessuno spiega il senso di un
compromesso quale l'accettare d avere una centrale elettrica di un certo tipo vicino a casa per guadagnarci su qualche altro fronte e aspetto della qualità della vita ( anche perchè un piano dietro non c'è ), continueremo ad
avere solo una politica politicante che fa il piano delle infrastrutture da realizzarsi sulla base delle mazzette e
un'opinione pubblica totalmente tafaziana che protesta contro qualcosa ma non ha un'idea di ciò per cui mobilitarsi in positivo.
Cioè continueremo ad avere l'alternativa solo tra il male e il peggio, e non so neanche dire quale delle due sia cosa.
Produzione industriale: ho la sensazione che molto del poco che produciamo ancora, purtroppo, lo produciamo col culo.
L'ispettorato del lavoro non esiste praticamente più per
l'applicazione della 81/08 ( ex 626 ) e per il controllo del fenomeno
del lavoro nero, e a questo punto della crisi credo che per non dare la mazzata finale
a quel che resta della nostra economia, anche Als ed Arpa abbiano deciso
di chiudere un occhio sull'inquinamento creato dai processi industriali.
Anzi, tutti e due.
Anche in questo caso
perchè o dietro non c'è un piano, o quello che c'è è delinquenziale e
volto allo smantellamento e non ad una sostenibile
riconversione/ammodernamento, perchè in Italia la borghesia è compradora
e lavora per il Re di Prussia.
Ma a tutto questo scorre parallelo il problema per cui, se anche non avessimo tra i piedi una Germania che ci vuole deindustrializzati, non avremmo ugualmente in questo momento una classe politica in grado di dare al Paese un sensato piano industriale "imponendolo" alla nostra, spesso inqualificabile e parassitaria, borghesia imprenditoriale.
Insomma, se mettiamo nel conto tutto quanto è inevitabile quello che accade.
Due mesi senza pioggia di aria stagnante e nebbia e l'aria delle
nostre città diventa semplicemente irrespirabile. Intanto da un parte e
dall'altra, pro traffico o contro traffico, tutti hanno una parte di
ragioni e tutti un torto consistente.
Quest'ultimo consiste nel non
sforzarsi mai di avere una visione sistemica della questione limitandosi
alla preoccupazione di non dover parcheggiare a più di 50 metri dalla
propria méta.
E poi, naturalmente, tornati a casa, riscaldamento a 24° perchè tanto "la bolletta me la pago io".
E il buco nell'ozono tanto ce l'hanno in culo tutti gli altri.....???
Per dire.....
Uno come tanti, che però si ostina a voler sbagliare in proprio e non per conto terzi. Uno convinto che un pizzico di buon senso e una spolveratina di coscienza di classe sarebbero atti rivoluzionari ma in una società impazzita, il più delle volte, diventano solo l'incipit dell'ulcera. Uno che crede che il sarcasmo sia un'arma di difesa del piffero, ma pur sempre un'arma di difesa.
martedì 29 dicembre 2015
Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l'eredità del marxismo
Pubblico un post di materiale non originale per omaggiare la figura di uno dei principali storici del '900 che contemporaneamente è stato anche uno dei più lucidi marxisti del secolo.
Parlo di Eric Hobsbawm.
Mancato nel 2012 all'età di 95 anni, scrisse e pubblicò saggi interessantissimi fino ai propri ultimi giorni mantenendo il senso della propria riflessione tremendamente attuale parlando di globalizzazione, di attacco alla sovranità dello stato, di erosione della statualità come fenomeno parallelo all'erosione della democrazia ed effetto della lotta di classe vinta dall'alto, sempre animato da grande rigore analitico ma anche capace di non cadere mai in forme di solipsistico dogmatismo.
Capace a 90 anni ed oltre di ripensarsi continuamente ed essere all'altezza dei tempi, pienamente padrone di un metodo e non semplicemente preoccupato di gestire, amministrare e ripetere vecchie formule finendone ingabbiato.
Ai miei occhi un esempio, in tutti i sensi.
I suoi due libri più famosi, di carattere divulgativo, sono Il secolo breve e L'età degli imperi.
Credo che entrambi vadano riletti proprio per comprendere meglio le contraddizioni odierne.
In successione, l'uno e l'altro, ci parlano della belle époque e del laissez faire, della crisi economica di quell'epoca che ingiustamente oggi si ricorda come un tempo prospero e di crescita ( per chi e a quali condizioni? )
Ci parlano del crollo storico e della completa delegittimazione del liberismo, cioè questa post-modernità oggi imperante che è in realtà stata a tutti gli effetti un balzo indietro di un secolo; ci parlano delle contraddizioni e dei tragici eventi che i conflitti intercapitalistici generarono e che noi oggi abbiamo il dovere di disinnescare in una situazione che per numerosi aspetti si ripropone simile.
Ritornerò su questo argomento citando singoli passaggi emblematici che mostrano come il liberismo abbia generato problemi in buona parte sovrapponibili in epoche diverse e come questi fenomeni, che possiamo definire genericamente come "effetti della globalizzazione", siano in realtà quasi ciclici nella storia.
Ciclici e reversibili, al contrario di quanto sostiene la vulgata corrente da destra a sinistra.
Il problema è che normalmente i cicli di globalizzazione si sono interrotti a causa di autentici cataclismi sociali e politici ( ed anche culturali ): la caduta dell'impero romano che era a propria volta un episodio di globalizzazione, la fine dell'imperialismo a trazione britannica la cui egemonia era contesa dalla dinastia guglielmina con la prima guerra mondiale, etc. etc. etc.
Come potremmo noi, oggi, opporci concretamente alla globalizzazione capitalistica evitando che l'umanità intera vada incontro ad un ennesimo cataclisma, come potremmo governare il fenomeno in modo pacifico restituendo democrazia e possibilità di costruire un futuro migliore e più libero per tutti i più poveri , per tutti i nati non privilegiati, senza che questa fase della globalizzazione si chiuda con una guerra o una chiusura nazionalistica governata da regimi autoritari ( una qualche riattualizzazione difficile da prevedere del fascismo storico, non uguale a sé stesso ma di certo nuovamente autoritario ), o con la seconda cosa di seguito alla prima come già accaduto un secolo fa?
A questa domanda risponde il penultimo libro di Hobsbawm, di cui cito in seguito un passaggio di bruciante attualità che da solo offre spunti sufficienti a scrivere interi trattati.
Se veramente volessimo ricostruire una sinistra all'altezza dei tempi credo dovremmo rileggere, tra le prime cose da farsi, questo autore del quale veramente si può dire che ha lasciato un vuoto incolmabile.
<Fu soltanto con la nuova era, dopo il 1973, quando l'economia e la politica di riforma del dopoguerra avevano cessato di dare simili risultati positivi che i governi vennero persuasi dalle ideologie individualistiche che ormai infestavano la facoltà di economia di Chicago. Per loro, i movimenti e i partiti operai, e persino i sistemi pubblici di welfare, altro non erano che ostacoli al libero mercato, che garantiva la massima crescita dei profitti e dell'economia, e di conseguenza, ritenevano gli ideologi, anche del welfare in generale. Idealmente, si sarebbe dovuto abolirli, anche se ciò si dimostrò in pratica impossibile; la «piena occupazione» era ora sostituita dalla flessibilità del mercato del lavoro e dalla dottrina del «tasso naturale di disoccupazione».Questo fu anche il periodo in cui gli Stati-nazione si ritirarono di fronte all'avanzata dell'economia globale transnazionale. Nonostante il loro internazionalismo teorico, i movimenti operai erano efficaci solo all'interno dei confini del proprio Paese, incatenati ai loro Stati-nazione, in particolare nelle economie miste e nei welfare states a conduzione pubblica della seconda metà del XX secolo. Con il ritirarsi degli Stati-nazione, i movimenti operai e i partiti socialdemocratici hanno perduto la loro arma più forte; finora non hanno mostrato una grande capacità di operare in modo transnazionale. Con l'entrata del capitalismo in un nuovo periodo di crisi, ci troviamo così alla fine di una fase peculiare della storia dei movimenti operai. Nelle «economie emergenti» in via di rapida industrializzazione, una possibilità di declino del lavoro industriale non c'è; nei Paesi ricchi del vecchio capitalismo i movimenti operai esistono ancora, sebbene traggano massicciamente la propria forza dai servizi pubblici che, nonostante le campagne neoliberali, non danno segni di contrazione. I movimenti occidentali sono sopravvissuti perché, come Marx aveva previsto, la grande maggioranza della popolazione economicamente attiva dipende dai propri stipendi e salari, e dunque riconosce la distinzione tra gli interessi di chi distribuisce il salario e di chi lo percepisce. Per cui, allorché sorgono conflitti fra le due parti, questi richiedono un'azione collettiva; la lotta di classe quindi continua, con o senza il sostegno delle ideologie politiche.
Inoltre, il divario tra i ricchi e i poveri e le divisioni tra gruppi sociali con interessi divergenti continuano a esistere, che ci piaccia o meno chiamare questi gruppi «classi». Per quanto le gerarchie sociali possano essere differenti da quelle di cento o duecento anni fa, la politica va dunque avanti, sebbene solo in parte come politica di classe.
Infine, i movimenti operai continuano perché lo Stato-nazione non è in via di estinzione. Lo Stato e le altre autorità pubbliche restano le uniche istituzioni capaci di distribuire il prodotto sociale tra gli individui che ne fanno parte, in termini umani, e di venire incontro a quei bisogni umani che il mercato non può soddisfare. La politica è quindi rimasta, e rimane, una dimensione necessaria della lotta per il miglioramento sociale. Anzi, la grande crisi economica che è cominciata nel 2008 e che rappresenta una sorta di caduta del muro di Berlino per la destra, ha portato all'immediata comprensione del fatto che lo Stato era essenziale per un'economia in difficoltà, così come lo era stato per il trionfo del neoliberismo, quando i governi ne avevano gettato le fondamenta mediante una sistematica privatizzazione e deregulation. >
Erich Hobsbawm, Come cambiare il mondo, perchè riscoprire l'eredità del marxismo. 2011, Rizzoli editore.
Sorprendente quanto possa essere lucido e fresco un 94enne.
Parlo di Eric Hobsbawm.
Mancato nel 2012 all'età di 95 anni, scrisse e pubblicò saggi interessantissimi fino ai propri ultimi giorni mantenendo il senso della propria riflessione tremendamente attuale parlando di globalizzazione, di attacco alla sovranità dello stato, di erosione della statualità come fenomeno parallelo all'erosione della democrazia ed effetto della lotta di classe vinta dall'alto, sempre animato da grande rigore analitico ma anche capace di non cadere mai in forme di solipsistico dogmatismo.
Capace a 90 anni ed oltre di ripensarsi continuamente ed essere all'altezza dei tempi, pienamente padrone di un metodo e non semplicemente preoccupato di gestire, amministrare e ripetere vecchie formule finendone ingabbiato.
Ai miei occhi un esempio, in tutti i sensi.
I suoi due libri più famosi, di carattere divulgativo, sono Il secolo breve e L'età degli imperi.
Credo che entrambi vadano riletti proprio per comprendere meglio le contraddizioni odierne.
In successione, l'uno e l'altro, ci parlano della belle époque e del laissez faire, della crisi economica di quell'epoca che ingiustamente oggi si ricorda come un tempo prospero e di crescita ( per chi e a quali condizioni? )
Ci parlano del crollo storico e della completa delegittimazione del liberismo, cioè questa post-modernità oggi imperante che è in realtà stata a tutti gli effetti un balzo indietro di un secolo; ci parlano delle contraddizioni e dei tragici eventi che i conflitti intercapitalistici generarono e che noi oggi abbiamo il dovere di disinnescare in una situazione che per numerosi aspetti si ripropone simile.
Ritornerò su questo argomento citando singoli passaggi emblematici che mostrano come il liberismo abbia generato problemi in buona parte sovrapponibili in epoche diverse e come questi fenomeni, che possiamo definire genericamente come "effetti della globalizzazione", siano in realtà quasi ciclici nella storia.
Ciclici e reversibili, al contrario di quanto sostiene la vulgata corrente da destra a sinistra.
Il problema è che normalmente i cicli di globalizzazione si sono interrotti a causa di autentici cataclismi sociali e politici ( ed anche culturali ): la caduta dell'impero romano che era a propria volta un episodio di globalizzazione, la fine dell'imperialismo a trazione britannica la cui egemonia era contesa dalla dinastia guglielmina con la prima guerra mondiale, etc. etc. etc.
Come potremmo noi, oggi, opporci concretamente alla globalizzazione capitalistica evitando che l'umanità intera vada incontro ad un ennesimo cataclisma, come potremmo governare il fenomeno in modo pacifico restituendo democrazia e possibilità di costruire un futuro migliore e più libero per tutti i più poveri , per tutti i nati non privilegiati, senza che questa fase della globalizzazione si chiuda con una guerra o una chiusura nazionalistica governata da regimi autoritari ( una qualche riattualizzazione difficile da prevedere del fascismo storico, non uguale a sé stesso ma di certo nuovamente autoritario ), o con la seconda cosa di seguito alla prima come già accaduto un secolo fa?
A questa domanda risponde il penultimo libro di Hobsbawm, di cui cito in seguito un passaggio di bruciante attualità che da solo offre spunti sufficienti a scrivere interi trattati.
Se veramente volessimo ricostruire una sinistra all'altezza dei tempi credo dovremmo rileggere, tra le prime cose da farsi, questo autore del quale veramente si può dire che ha lasciato un vuoto incolmabile.
<Fu soltanto con la nuova era, dopo il 1973, quando l'economia e la politica di riforma del dopoguerra avevano cessato di dare simili risultati positivi che i governi vennero persuasi dalle ideologie individualistiche che ormai infestavano la facoltà di economia di Chicago. Per loro, i movimenti e i partiti operai, e persino i sistemi pubblici di welfare, altro non erano che ostacoli al libero mercato, che garantiva la massima crescita dei profitti e dell'economia, e di conseguenza, ritenevano gli ideologi, anche del welfare in generale. Idealmente, si sarebbe dovuto abolirli, anche se ciò si dimostrò in pratica impossibile; la «piena occupazione» era ora sostituita dalla flessibilità del mercato del lavoro e dalla dottrina del «tasso naturale di disoccupazione».Questo fu anche il periodo in cui gli Stati-nazione si ritirarono di fronte all'avanzata dell'economia globale transnazionale. Nonostante il loro internazionalismo teorico, i movimenti operai erano efficaci solo all'interno dei confini del proprio Paese, incatenati ai loro Stati-nazione, in particolare nelle economie miste e nei welfare states a conduzione pubblica della seconda metà del XX secolo. Con il ritirarsi degli Stati-nazione, i movimenti operai e i partiti socialdemocratici hanno perduto la loro arma più forte; finora non hanno mostrato una grande capacità di operare in modo transnazionale. Con l'entrata del capitalismo in un nuovo periodo di crisi, ci troviamo così alla fine di una fase peculiare della storia dei movimenti operai. Nelle «economie emergenti» in via di rapida industrializzazione, una possibilità di declino del lavoro industriale non c'è; nei Paesi ricchi del vecchio capitalismo i movimenti operai esistono ancora, sebbene traggano massicciamente la propria forza dai servizi pubblici che, nonostante le campagne neoliberali, non danno segni di contrazione. I movimenti occidentali sono sopravvissuti perché, come Marx aveva previsto, la grande maggioranza della popolazione economicamente attiva dipende dai propri stipendi e salari, e dunque riconosce la distinzione tra gli interessi di chi distribuisce il salario e di chi lo percepisce. Per cui, allorché sorgono conflitti fra le due parti, questi richiedono un'azione collettiva; la lotta di classe quindi continua, con o senza il sostegno delle ideologie politiche.
Inoltre, il divario tra i ricchi e i poveri e le divisioni tra gruppi sociali con interessi divergenti continuano a esistere, che ci piaccia o meno chiamare questi gruppi «classi». Per quanto le gerarchie sociali possano essere differenti da quelle di cento o duecento anni fa, la politica va dunque avanti, sebbene solo in parte come politica di classe.
Infine, i movimenti operai continuano perché lo Stato-nazione non è in via di estinzione. Lo Stato e le altre autorità pubbliche restano le uniche istituzioni capaci di distribuire il prodotto sociale tra gli individui che ne fanno parte, in termini umani, e di venire incontro a quei bisogni umani che il mercato non può soddisfare. La politica è quindi rimasta, e rimane, una dimensione necessaria della lotta per il miglioramento sociale. Anzi, la grande crisi economica che è cominciata nel 2008 e che rappresenta una sorta di caduta del muro di Berlino per la destra, ha portato all'immediata comprensione del fatto che lo Stato era essenziale per un'economia in difficoltà, così come lo era stato per il trionfo del neoliberismo, quando i governi ne avevano gettato le fondamenta mediante una sistematica privatizzazione e deregulation. >
Erich Hobsbawm, Come cambiare il mondo, perchè riscoprire l'eredità del marxismo. 2011, Rizzoli editore.
Sorprendente quanto possa essere lucido e fresco un 94enne.
mercoledì 23 dicembre 2015
Narcisismi antisistemici ( ? )
Una star dell'antisistema non può, per banali motivi logici, che non essere realmente antisistemica.
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